TESORO ROMANO DI COMO, MILLE SOLDI D'ORO CHE GETTANO LUCE SULLA FINE DELL'IMPERO - LO SPECIALE E TUTTI I VIDEO

Il tesoro romano di Como. Tesoro è il termine più diretto senza tanti giri di parole, senza usare il termine tesoretto che spesso si utilizza in archeologia, per designare monete o preziosi sepolti in periodi incerti, per farli sfuggire a razzie, tenerli al sicuro mentre eserciti stranieri scendono dalle vallate e invadono un territorio, come accadeva nell’Italia del V secolo d.C. Il termine tesoro è usato spesso a sproposito, per “fare titolo”, ma in questo caso è più che appropriato.

LA SCOPERTA DEL TESORO

La mattina del 5 settembre 2018 si sta scavando nell’area dell’ex Teatro Cressoni di Como, in via Diaz, la classica trasformazione edilizia di un edificio che, già di per sé, rappresenta una sorta di archeologia della fine dello spettacolo in Italia. Prima teatro, poi trasformato in cinema, raggruppando entrambe le crisi, quella del palcoscenico, e quella del grande schermo. Una specie di sintesi di epoche che se ne vanno, sacrificate dai cambiamenti dei modi di vita. Come i teatri antichi, o gli anfiteatri, se ci pensiamo.

Insomma, l’indagine archeologica, che noi definiremmo preventiva per semplicità, ma che tecnicamente-burocraticamente non sarebbe “preventiva”, è svolta dai professionisti della Sap sotto l’occhio vigile della soprintendenza. Il lavoro di sta concludendo, il terreno è fradicio per via della falda, i rilievi di ambienti tardo-antichi sono stati fatti, anche se non si capisce molto bene la funzione, data l’area tutto sommata limitata d’indagine. È a quel punto che la benna dell’escavatore urta qualcosa. Ci segniamo una sigla, US (ossia unità stratigrafica) 118A, che riempiva appunto il vano A. Volendo definirne la tipologia sarebbe una sorta di dark layer, ci dicono, ossia quegli strati, appunto scuri di humus, che sono tipici dell’archeologia urbana delle realtà tardo antiche o alto medievali, quando, per farla breve, nel tessuto cittadino si aprivano anche orti e coltivazioni varie. La US 118 A unisce invece tante cose. Da un lato l’archeologia come la si immagina da non-archeologi. Ossia il ritrovamento sorprendente che richiama l’attenzione di tutti. Dall’altro quella che fa tanto piacere ai media, che finalmente possono usare il titolo “Scoperto un tesoro” senza cadere nella frase fatta vuota di significato. Poi c’è il lato degli archeologi-archeologi, che al di là del tesoro di tipo “classico”, quello con il rinvenimento prezioso, iniziano a mettere in moto tutte le loro connessioni professionali: lo studio dell’economia del periodo, la rilevanza numismatica, la correlazione politico-militare-territoriale, le analisi di laboratorio, i collegamenti con le fonti scritte, i confronti materiali dei reperti, l’analisi delle novità e delle ricorrenze.

UN TESORO BEN ORGANIZZATO

Insomma, quella benna, cosa colpisce? Un contenitore in pietra ollare, che le analisi ci riveleranno poi provenire dalla Val Malenco. Un curioso oggetto tronco-conico, con coperchio, simile a un grande bricco, o a un boccale di birra bavarese. Usato in cucina, come ci suggeriscono i chiari segni di utilizzo sul fuoco. L’escavatore aveva agito con prudenza sotto l’occhio di ben tre archeologi, ma l’oggetto era arrivato a sorpresa, non visto, con una leggera, quasi provvidenziale, rottura. Dentro, lo scintillio inconfondibile dell’oro, tanto oro. Sono monete. Non buttate alla rinfusa, ma ordinatissime. Appare subito che si tratta di solidi di tardo periodo imperiale. Stiamo parlando della moneta più “sicura” per questi incerti secoli di trasformazione. Tanto sicura che, nei secoli successivi, ci si riferirà al solido come la moneta per eccellenza, facendo derivare il termine soldo proprio da quelle monete d’oro, dal peso di 1/72 di libbra, ossia poco più di 4,5 grammi l’una. Un conio che valeva veramente “tanto oro quanto pesa”, perché parliamo di un elevatissimo grado di purezza. Orgogliosamente dichiarato, su ogni solido, dalla sigla OB, ossia (aurum) obryziacum, che significa oro puro, o “depurato”.

La olla viene presa in carico dalla soprintendenza, e sottoposta a quello che si definisce come microscavo in laboratorio, curato da Grazia Facchinetti, funzionaria archeologa della soprintendenza ed esperta numismatica . Praticamente un’indagine stratigrafica del contenuto del recipiente in pietra ollare. Da cui si capisce che le monete erano disposte in pile ordinate, probabilmente racchiuse da stoffa, come ora appare con i blister plastici o i più classici “cartocci” che raccolgono le monete per i commercianti che si trovano in banca. Subito balza all’occhio il numero dei solidi: esattamente mille, non uno di più, non uno di meno. Si trattava quindi di un patrimonio in mano a un’amministrazione, a un contabile, probabilmente di provenienza pubblica. La gran parte delle monete sono battute dalla zecca di Mediolanum (639 esemplari). La città era stata capitale imperiale, e la zecca funzionava ancora quando fu composto questo tesoro, con monete coniate tra il 395 e il 472 d.c.

Ben 744, comunque, sono coniate dopo il 455, quindi stiamo letteralmente parlando degli ultimi bagliori, e non solo monetari, dell’impero romano d’Occidente. L’ultima moneta coniata presente nel tesoro di Como, infatti, è di solo quattro anni precedente alla data canonica della fine dell’età antica, con la deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo del 476 d.C.

BAGLIORI DI FINE IMPERO

Gli imperatori rappresentati sono otto, assieme a quattro Auguste. Solo 96 solidi su 1000 sono battuti da atelier della parte orientale dell’impero. Tutte le monete sono state restaurate con le risorse della soprintendenza con un paziente lavoro. Ma non basta, perché il tesoro romano di Como, oltre ai solidi tardo imperiali, è composto anche da gioielli d’oro e di materiale di lavorazione per l’attività orafa. In particolare si tratta di tre anelli, probabilmente maschili (un diametro, ad esempio, è di 27,7 mm), con tracce d’uso. Nel castone, in due casi, uno smeraldo (identificazione probabile in attesa di indagine petrografica) e un bellissimo granato cabochon (ossia privo di sfaccettature). L’altro è un pregevole manufatto completamente in oro “a cestello”. C’erano poi tre orecchini, una coppia e uno isolato, forse un pendaglio, evidentemente in corso di lavorazione e non finiti. A testimoniare il lavoro dell’atelier di un gioielliere, una porzione di lingotto spezzato (circa 23 grammi), una barretta, una goccia d’oro e dei sottili fili aurei, a convalidare la tesi che tutto l’oro disponibile fosse stato con cura radunato prima di essere nascosto nel recipiente in pietra ollare. Non è escluso che, nel caso fosse oro dell’amministrazione imperiale, anche i gioielli fossero destinati ad essere fusi per la coniazione nella zecca di Mediolanum, che s’ipotizza identificabile in un edificio dalle poderose murature, oltre 6 metri di spessore, identificato in piazza Mentana nel capoluogo lombardo.

IL VERO VALORE DEL TESORO DI COMO

Chi poteva essere il proprietario di una somma così ingente poco prima della caduta dell’impero ? L’identikit viene proposto dalla stessa Facchinetti, ben conscia che si tratti di ipotesi difficilmente verificabile, allo stato attuale degli studi. Un privato di rango senatorio o una cassa pubblica, in questo caso probabilmente milanese? Queste sono le possibilità, assieme a una terza, per nulla improbabile: quella di un furto, o un ammanco truffaldino. Una sola cosa è sicura: il fatto che chiunque le avesse nascoste, non le andò mai riprendere, e di certo per una ragione molto grave. Una ragione che, se anche riuscì a trasmettere questo segreto a qualcuno di sua fiducia, impedì a chiunque di ritornarne in possesso.

Quanto vale questo tesoro? Stiamo parlando di circa cinque chili d’oro, e di un immenso valore numismatico, che lo Stato ha quantificato, secondo parametri ben definiti, quattro milioni di euro. Come spesso accade in questi casi eccezionali, quando ci sono ricompense di legge per i proprietari privati dell’area, si finisce in contenzioso. Ma non ci interessano né le cifre, né i risvolti da aula di giustizia. Il vero valore del tesoro è quello offerto da un incredibile spaccato di fine impero, dove s’intravvedono l’amministrazione imperiale, la catena tecnologica del lavoro delle zecche, la complessa simbologia del potere racchiuso dalle immagini delle monete, la continua trasformazione delle élite e dei sovrani, spesso al vertice per pochi mesi, nel vorticoso V secolo. Il bagliore dell’oro, in questo caso, è un faro che getta un cono di luce molto profondo ben oltre le fonti scritte.

Archaeo reporter 21.5.2022

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